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venerdì 30 ottobre 2009

Metropolis


Anno: 1927
Regia: Fritz Lang.
Interpreti: Alfred Abel, Brigitte Helm.

In una metropoli futuristica ed ipertecnologica, la società risulta drasticamente divisa in due classi: i ricchi, che trascorrono una vita comoda ed agiata in superficie, e gli operai che, nel sottosuolo, sono costretti a turni di lavoro massacranti, allo scopo di mantenere in moto le "macchine" che permettono alla città di sopravvivere. I due mondi, che conducono vite di fatto parallele, si rincontreranno allorché Feder, figlio del Signore della città, deciderà di scendere nel sottosuolo e mischiarsi fra gli operai, spinto dall'amore per Maria e dalla volontà di ricongiungersi con i suoi "fratelli".
Il regista fa di questa immagine di partenza la grande metafora di un mondo nel quale Mente e Braccio (le due classi sociali, ma anche la ragione e l'istinto di ogni singolo uomo), non possono continuare a sopravvivere ignorandosi a vicenda, ma dovranno prima o poi trovare quello che viene definito un "mediatore": tale mediatore, nel film, sarà proprio il protagonista Feder, mentre nella vita, ci viene detto, deve essere il cuore. Questa "morale", che in realtà lascia abbastanza spiazzati nel suo essere così semplice e semplicistica, ci viene spiattellata subito dopo i titoli di testa e ricordata ulteriormente prima dei crediti finali. Tutto quello che sta nel mezzo, come detto, è lo sviluppo visionario di una grandiosa metafora, per i tempi comunque abbastanza originale, che su tale enunciato si costruisce.
Pur apprezzando l'approfondimento di alcune tematiche al tempo relativamente giovani, almeno per il Cinema (come ad esempio il rapporto uomo-macchina), credo che il punto di forza di quest'opera sia soprattutto il forte impatto visivo, l'uso di tecniche innovative e l'estrema valorizzazione di alcuni capisaldi estetici tipici di quell'Espressionismo Tedesco di cui essa è l'ultimo prodotto.
Si tratta di un film muto, per cui non nego la mia personale difficoltà di giudicarlo dal punto di vista del ritmo e della capacità di suscitarmi sentimenti; ammetto comunque di aver goduto della tensione palpabile e dell'intensa drammaticità di alcune scene, nonostante qualche venatura di noia qua e là...

Voto:



lunedì 26 ottobre 2009

Vital


Anno: 2004
Regia: Shinya Tsukamoto
Interpreti: Tadanobu Asano, Kiki, Nami Tsukamoto, Ittoku Kishibe.

Un promettente studente di medicina è rimasto coinvolto in un grave incidente stradale, nel quale la sua ragazza ha perso la vita. Una volta risvegliatosi dal coma è affetto da totale amnesia, ma spinto dai genitori, cerca comunque di ritornare alla normale vita universitaria. Le sue immense doti non lo tradiscono ed egli rimane futuro medico provetto, nonostante sia messo a dura prova quando il destino beffardo gli fa trovare sul tavolo operatorio, da sezionare per il semestre di anatomia, proprio il cadavere della sua fidanzata.
Comincerà così, fra i ricordi che lentamente riaffiorano, un viaggio maniacale e visionario, ed insieme freddamente razionale, alla ricerca di corrispondenze fra amore spirituale ed amore fisico, o più letteralmente anatomico: un amore che lentamente si consumerà come un rito, fino alla sezione del suo capillare più piccolo, al disegno dettagliatissimo d'ogni suo tessuto.
Oltre all'originalità della metafora sulla quale è costruito, di questo film ho adorato il racconto dell'intima elaborazione di un dolore mai palesato agli altri e non per questo represso, dolore che non si lascia andare alla disperazione, ma che nemmeno rifiuta i suoi lati più oscuri: il protagonista cede più volte ai ricordi ed alle visioni, fino a ritagliarsi, nella sua testa, un piccolo pezzettino di mondo solo per sé e per il suo Amore perduto, un mondo ch'egli è riluttante a condividere anche con la sua nuova compagna, pur semplicemente meravigliosa nel senso più esteriore del termine.
Una lunga poesia che il regista racconta, quasi accompagna, con tecniche più che mai discrete e silenti, tese a non intaccarla, a non invaderne lo scorrere armonioso.
Da vedere.

Voto:



domenica 25 ottobre 2009

Antichrist

Anno: 2009
Regia: Lars Von Trier
Interpreti: Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg.

Al discusso e discutibile genio danese, che ammetto di conoscere pochissimo, ho deciso di avvicinarmi partendo dalla sua ultima opera, sicuramente altrettanto discutibile e discussa. Devo confessare d'esserne stato attirato soprattutto per i feroci attacchi sferrati al regista dopo la presentazione a Cannes, per le accuse di voler stupire e scandalizzare a tutti i costi, fino alle ipotesi di presunte malattie e disagi mentali d'ogni genere - con "Antichrist" Von Trier, per sua stessa ammissione, ha voluto uscire allo scoperto dopo un lungo periodo di depressione, portando sullo schermo tutte le sue ossessioni ed i suoi turbamenti più profondi.
E' difficile approcciare una pellicola del genere, e soprattutto cercare di giudicarla, prescindendo da quanto detto sopra...volendoci provare a caldo, appena visti scorrere i titoli di coda, posso dire soprattutto d'essermi trovato di fronte ad un'opera certamente coraggiosa ed estrema, intrisa di forti valenze simboliche riguardanti il rapporto fra Uomo e Donna (o forse Regista-Donna?), dove non sempre è chiaro il confine fra visione e realtà, fra irrazionale e razionale, fra malattia e lucidità. Dualismi talmente forti da dare quindi origine anche alle inevitabili dicotomie critiche cui ho fatto cenno: enorme bufala o opera d'arte? Ciò che è certo è che si tratta di un film unico, la cui catalogazione accademica nel genere horror risulta quantomeno riduttiva.
Non si può ad ogni modo non spendere una parola per l'interpretazione, a mio giudizio superba, dei due attori protagonisti: una "Lei" stravolta e portata all'esaurimento dai sensi di colpa e da ulteriori, ennesimi dualismi interiori, un "Lui" che vede lentamente crollare le sue certezze razionali di psicoterapeuta, finendo per contemplare stralunato il vuoto.
Poche righe infine per ricordare quel Prologo meraviglioso, esteticamente sublime per scelte visive e sonore, tecnicamente perfetto, ed altrettanto sapientemente bilanciato da un Epilogo che lo richiama, sulle medesime note di Handel, con immagini volutamente contrastanti, di perdizione e disarmonia, come se il genio stesse beffardamente sussurando..."guarda che so perfettamente quello che faccio".
Voglio osare.

Voto:


mercoledì 21 ottobre 2009

Ultimo tango a Parigi

Anno: 1972.
Regia: Bernardo Bertolucci.
Interpreti: Marlon Brando; Maria Schneider; Jean-Pierre Léaud.

Su questo film credo che potrei scrivere un libro, tante sono le scene esteticamente perfette contenute, tanto sorprendente e spontanea è qui la recitazione del DivinoMarlon, tante scelte registiche ho amato con un godimento sottile, quasi fisico.
Il protagonista ha le fattezze di un affascinante uomo decadente, ma è in realtà un animale ferito che carambola per le vie di Parigi, sopravvivendo su quella linea che separa la disperazione dal nulla, in una maniera a dir poco violenta e insieme meravigliosa.
Ciò che Bertolucci riesce a rendere fisicamente percepibile ai nostri occhi, nel dipanarsi del personaggio, è un delirio di Solitudine, Dolore, fisicità, lussuria, Rabbia e Potere: in un'espressione, tutto ciò che può mantenere al confine della vita l'animale morente. Un gioco di inquadrature, colori, ritmo e luci costruisce un universo sensoriale dipinto di una bellezza mai superficiale, una poesia in movimento che riesce a evocare distintamente il Dolore dell'Uomo, fatto dal gusto metallico del sangue, di un silenzio che si scatena in isteria, di strade cupe che risuonano tristezze e miseria.
Una scena per tutte: quella finale, di morte, dove regia e recitazione si uniscono a creare un momento perfetto.
L'animale ferito ha scelto la vita, e la cerca nell'unico modo in cui la sa cercare: dandole la caccia. Una caccia che si esaurisce in un appartamento pieno di ricordi, nel quale Lei, l'anima innocente che con la sua leggerezza ha lenito ferite troppo vecchie, estrae una pistola.
Uno sparo fuso a un nome di donna: lui, incredulo, barcolla sul balcone e, agonizzante, guarda l'infinito dei tetti di Parigi, impaurito, liberato, consapevole di una morte che in realtà è una condanna alla negazione della Vita, alla disperata solitudine, per lui così come per l'Uomo.
L'esatto momento in cui gli occhi di Marlon Brando diventano atoni, un capolavoro di recitazione, è per me la fine del film, ma il regista ci concede una sorta di piccolo epilogo, qualche secondo di girato, che forse è necessario, per ricomporci dalla stretta emotiva di una delle scene di morte più belle mai scritte nella storia del cinema.


Voto:



sabato 17 ottobre 2009

Into the Wild

Anno: 2007
Regia: Sean Penn
Interpreti: Emile Hirsch, William Hurt

Chi sceglie di raccontare una vicenda realmente accaduta, parte sempre con l'alibi di una trama prestabilita, fondata su premesse necessariamente verosimili ed orientata verso un finale già scritto, già deciso, già "successo". Domanda legittima che però rimane da farsi (e da fare) per chi si trova di fronte ad opere del genere, è un unico e grave "perché": perchè raccontare proprio quella storia, e perché raccontarla così.
Il film narra la vicenda di un giovane americano di famiglia borghese che, finiti gli studi, decide di abbandonare l'inquietante prospettiva d'una vita piatta, consumista e benpensante, partendo alla ricerca di un "senso" più profondo da dare alla propria esistenza: sarà l'inizio di un viaggio che durerà più di due anni tra Stati Uniti, Messico ed Alaska.
Niente di nuovo, verrebbe da pensare, mentre di fatto ci si ritrova spettatori confusi di un'odissea che non si sa se aborrire per la tremenda banalità del suo dipanarsi, o rispettare per il semplice mero fatto d'essere estremamente "vera".
Certamente non aiuta ad emozionarsi una regia che vive della bellezza dei suoi soggetti (paesaggi e colori mozzafiato, musiche apprezzabili), più che della eventuale capacità di valorizzarli a regola d'arte: su questo ha probabilmente ragione chi ha parlato di un'estetica da documentario del National Geographic, da video di Mtv.
Nel frattempo ci ritroviamo annoiati da certi interrogativi stereotipati e da alcuni barlumi di risposte che il film vorrebbe darci, con la sensazione che il protagonista (come chiunque) avrebbe tranquillamente potuto trovarli fissando il soffitto della propria camera, senza dover arrivare necessariamente "Nelle Terre Selvagge"; infine, un epilogo tragicamente intenso sembra una scorciatoia troppo facile per cercare d'emozionare.
Provando la sensazione di trovarci sospesi fra la storia di un'inutile ricerca, e l'inutile storia di una ricerca, effettivamente ci viene da mormorare...niente di nuovo.


Voto: