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venerdì 29 gennaio 2010

Dogville

Anno: 2003
Regia: Lars von Trier
Interpreti: Nicole Kidman

Dopo aver timidamente osato, mesi fa, un "commento" sull'Anticristo di Von Trier, eccomi di nuovo a subire l'innegabile fascino del regista danese: eccomi in Dogville. Poche delle persone che conosco hanno visto questo film. Pochissime sono arrivate alla fine (2h 50'). Quasi nessuna (quasi?!?) me ne ha parlato bene.
Dogville è una cittadina minuscola della provincia rurale americana. Il film racconta gli accadimenti immediatamente precedenti e quelli successivi all'accettazione nella comunità di Grace, donna dal passato sconosciuto, in fuga da un gruppo di pericolosi gangster e ricercata dalla polizia. L'accoglienza e la protezione riservatele, la renderanno "debitrice" nei confronti della città: Dogville non esiterà a riprendersi con gli interessi quanto dovuto.
Che non si tratti di nulla di "già visto" lo si capisce fin da subito, dalla scenografia: niente case, cortili, piante, cornici paesaggistiche...il sito dove sorge Dogville, unico scenario in cui il film troverà ambientazione, è un immenso palcoscenico sul quale la pianta delle case è tracciata con un gesso bianco: niente muri nè porte...qualche finestra e vetrina qua e là (solo quelle che avranno un "ruolo" nella storia), il riassunto di un campanile, la stilizzazione di una miniera di ferro abbandonata, poco altro. Lars il Perfido non ci vuole mai distratti nè distraibili da cianfrusaglie di contorno, ma ci pretende in ogni momento immersi più che mai nello stato d'animo dei personaggi e concentrati sui loro dialoghi: una scelta forte e rischiosa che, unita alla lunghezza del film ed all'atrocità messa in scena, contribuisce a scremare, e di molto, la schiera di coloro potenzialmente in grado di tollerare fino alla fine il susseguirsi dei dieci episodi in cui l'opera si suddivide. Eppure, confesso di essermi abituato immediatamente ed aver apprezzato non poco l'atmosfera surreale data da quel realismo troppo scarno per essere reale, così smaccatamente e volutamente messo in contrasto con la stucchevole e neutrale voce narrante, a sua volta accompagnata da altrettanto strani segmenti musicali! Unico, per quanto ne so.
Venendo al contenuto: Dogville è una lenta tortura perpetrata nei confronti della protagonista e dello spettatore; l'interminabile cronaca di un lento, metaforico distaccarsi tra Bene e Male, inizialmente fusi nell'ipocrisia benpensante dei protagonisti, i quali però mostreranno ben presto il loro lato più mostruoso. Eppure l'opera non trova il suo significato ultimo nel divergere sempre più accentuato, manicheista direi, tra i due opposti (non è casuale il nome della protagonista, "Grazia", la quale è lì, per gran parte del film, ad impersonare metaforicamente il Bene)...il regista completa la sua opera inquietante insinuandoci prima il dubbio finale che il Buono, in fin dei conti, altro non sia che un arrogante, e confezionandoci poi un epilogo nel quale vittime e carnefici si confondono e si sovrappongono. Per non parlare di alcuni degli istinti vendicativi e violenti che riesce ad indurre, o almeno, con me ci è riuscito, nello spettatore estenuato...della serie: "sei anche tu uno di loro, anche tu abiti a Dogville".
Questo danese comincia a piacermi.



Voto:




ps.: i paesi europei coinvolti nella produzione di questo film sono moltissimi, ho deciso di indicare nelle tags soltanto la Danimarca, patria dell'autore.

giovedì 28 gennaio 2010

Dancer in the dark

Anno: 2000.
Regia: Lars von Trier.
Interpreti: Bjork, Catherine Deneuve, David Morse, Peter Stormare.

L'inizio è il buio e la fine è silenzio.
Crudele, come credo solo Lars von Trier in questi anni. Geniale, anche perchè scevro della perversione che questo regista, in preda a delirio narcisistico e paranoico, ama brandire come arma contro le proprie eroine e, soprattutto, contro i propri spettatori.
Fedele alla regola del dogma secondo la quale non è permesso creare film di genere, questo in effetti non è un musical, pur essendolo. Le scene di canto e ballo, per la verità ben diluite nello svolgersi del tempo, delimitano una dimensione immaginaria, parallela al tronco narrativo principale, e hanno una ben precisa funzione, quella del preludio. Al termine (o anche nel bel mezzo) di ogni melodia di Bjork, sempre a connotazione positiva di speranza, il dio-regista infligge un colpo alla sua eroina, modificando non poco l'andamento della trama. Lo strumento "musical" diventa quindi cornice e servo del cinema di von Trier, quasi un coro in una tragedia greca.
Grandioso il personaggio di Selma, cieca eppure non limitata dalla perdita della vista, perchè "non c'è più nulla da vedere": vive di un mondo immaginario fatto di suoni, ritmo e musica, che la guida e sostiene, e nel quale l'atrocità è il completo silenzio.
La sequenze finale merita di essere ricordata, e spero di riuscire a rendervela.
[spoiler] 107 passi dividono la cella di Selma dalla sala delle esecuzioni capitali. Il silenzio domina la scena, rotto da un pianto disperato. Viene in soccorso a Selma Brenda, una guardia carceraria misericordiosa, che crea per la condannata un ritmo, in modo da farle trovare la forza di mettere un piede davanti all'altro per raggiungere la forca. La "magia" accade anche questa volta, dando il via all'ultima delle scene musicali-oniriche, nella quale Bjork, ora leggiadra e sorridente, volteggia per il corridoio del penitenziario, mentre la musica di sottofondo viene guidata dalla marcia incalzante della conta dei passi di Brenda. Il musical finisce in favore dell'inquadratura della stanza dell'impiccagione, e si torna alla dimensione del reale: spezzata dalla paura, Selma intona una melodia, "Questa non è l'ultima canzone", per trovare il coraggio di morire, quando il cappio intorno al suo collo si tende. L'ultima canzone è il silenzio nella sala [spoiler-end].
Raramente nella mia vita una scena di film mi ha fatto provare qualcosa di analogo: una morsa intorno al cuore di autentico e puro dolore.
Vorrei potervi parlare diffusamente anche della regia che guida "Dancer in the dark", perchè di sicuro anche questo film, così come tutti quelli del nostro regista danese, sarà zeppo di trucchetti/scelte stilistiche/tecnicismi geniali o eretici a seconda di come li si vuol vedere e di autocitazioni, ma il fatto è che questo film è così coinvolgente, ben fatto, ben recitato e ricolmo di emozione che passa in secondo piano il fatto che sia opera di quell'egocentricissimo Lars von Trier. Ricordo solo una camera a mano estremamente sfarfallante, da mal di mare, posata solo nelle sequenze musicali, riprese da più punti di vista: peccato, perchè poteva essere interessante girare anche queste sequenze a spalla. Incredibile scoperta quella della recitazione di Bjork, grandiosa.
Insomma, guardare "Dancer in the dark" è un'esperienza emotiva molto forte ma che non disturba, o almeno non lo fa oltre un ragionevole limite, e che quindi vi consiglio. E lo dico a malincuore, perchè non vi nascondo la mia profonda antipatia per Lars von Trier: ancora non gli perdono il turbamento provocatomi dalla visione di "Le onde del destino" e "Dogville". Quasi quasi mi dispiace dare sei ovetti a uno dei suoi film.


Voto:




domenica 24 gennaio 2010

A single man



Anno: 2009.
Regia: Tom Ford.
Interpreti: Colin Firth, Julianne Moore.

Ho deciso di vedere questo film quando, in una serata di zapping, mi sono imbattuta per caso in un'intervista a Ford e mi si è parato davanti agli occhi un moderno "dandy" (perdonate l'espressione orrenda), splendidamente agghindato, con una meravigliosa postura e un dialogare squisitamente "polite", che presentava una delle scene del film, commentandone la valenza emotiva personale e sottolineandone i rimandi autobiografici. Incredibile dictu, nelle immagini passate sullo schermo, eleganti e gravide di emozione, ho potuto distintamente percepire la personalità del loro creatore, come se ne simbolizzassero una perfetta traduzione in immagine. Affascinante.
La scena in questione è quella in cui il protagonista si prepara al suicidio: ciò che si vede in quei pochi minuti è un elegantissimo uomo di mezza età che studia quasi maniacalmente l'estetica di quel gesto in ogni dettaglio, dalla posizione all'abbigliamento: tutti gli oggetti necessari, co-protagonisti della scena, vengono elencati e disposti con precisione chirurgica su una scrivania, in cerca dell'algoritmo perfetto. Attesa e insicurezza incorniciano ogni movimento, a dare forte contrasto con la misura del gesto, a trasportare dolcemente lo spettatore.
Fortunatamente "A single man" non si limita a essere un'opera dall'estetica curatissima (anche se, va detto, questa è la vera protagonista almeno per la prima metà della pellicola, catalizzando enormemente l'attenzione), ma offre molto altro: personaggi ben sfaccettati e tridimensionali, ottime recitazioni, una più che buona colonna sonora, un ritmo appropriato e quel po' di nostalgia degli anni '60 che già da sola contribuisce al fascino di un film.
La storia ruota intorno alla metabolizzazione del dolore del protagonista, stretto in un vortice di solitudine, depressione e soprattutto paura, sentimenti che il regista ci restituisce in maniera delicata, senza ricorrere a quell'iperesposizione di pathos che colpisce facilmente il pubblico ma che rende tutto irreale.
Punto debole del film è il finale, che purtroppo scade nel trito e ri-trito ritrovandosi impantanato in un banale ritorno all'amore per la vita, proprio nel momento in cui questa è destinata a finire.
Film consigliato, regista (esordiente) da tenere d'occhio.


Voto:




lunedì 18 gennaio 2010

Il grande silenzio


Anno: 2005.
Regia: Philip Groning.

"Il monastero della grande Chartreuse vicino Grenoble è considerato uno dei più austeri del mondo. Nel 1984 chiesi di fare delle riprese, mi risposero: forse tra 10, 13 anni.
16 anni dopo mi chiamarono, erano pronti."

E' quello che dice il regista alla fine del film. Lascia di sasso.
Perché c'è voluto così tanto per poter solo concepire una telecamera all'interno del monastero è intuibile dal girato: ora il monaco contabile usa il pc, drappelli di turisti si addossano incuriositi al perimetro dell'abbazia, i frati mangiano cibo ottenuto grazie alla grande distribuzione commerciale. In un'espressione, perché l'"oggi" è riuscito a far breccia nelle mura di Chartreuse, permettendo al nostro mondo di penetrarvi, anche se in maniera ridottissima, snaturandone ben poco la struttura.
Definire "Il grande silenzio" un film non credo sia esatto, "documentario" è una parola più azzeccata: in due ore e quaranta sfilano davanti alla telecamera le giornate dei frati, scandite dai ritmi delle campane e della preghiera, e con loro l'estrema bellezza di tutto ciò che a queste si relaziona. Non c'è un narratore, non c'è un "voler dire qualcosa a qualcuno", non ci sono sentimenti o protagonisti, non c'è trama: semplicemente si vede ciò che è nella realtà, si spia dalla breccia nelle mura.
Lavoro, funzioni religiose, paesaggi incantevoli, architetture poverissime o raffinate, studio e svago, adiuvati dal gusto sopraffino del regista, creano un insieme di sequenze da un lato interessanti dal punto di vista sociologico, dall'altro esteticamente sublimi. Grande attenzione è posta al particolare, anche dal punto di vista quantitativo: romantica l'inquadratura del pulviscolo atmosferico in sospensione, così come lo sono le innumerevoli immagini dei giochi di forme creati dalla neve, a tono i "primi piani" di frutta e verdura (che a me hanno ricordato le sequenze di Almodovar in cui fa cucinare alle proprie eroine il gazpacho), macchie di colore che spezzano la monotonia di marrone e grigio negli ambienti.
Quello che si respira guardando questa pellicola, come già accennato, è una bellezza naturale e soprattutto, in contrapposizione alla clausura dei monaci, un forte senso di tranquillità e libertà. La solitudine dona a questi uomini, all'interno di un'abbazia che è un sistema chiuso, un ruolo e un significato di sè e il regista, con gusto e lentezza, riesce benissimo a farci vivere questo microcosmo infarcito di silenzio, riuscendo anche nell'evitare l'insidia del luogo comune e della retorica fine a se stessa.
Quasi tre ore di film in cui i personaggi si muovono pressoché in silenzio, senza alcuna colonna sonora e con un tale abbondare di dettagli minuti, alcuni dei quali assolutamente trascurabili, rischia però di appesantire la visione, che in più di un punto annoia un po'. Ricordo di aver particolarmente sofferto quell'incredibile numero di riprese di mezze figure di monaci immobili, inespressivi, in silenzio e solitudine, su fondo bianco: per ogni soggetto dieci secondi di girato, come la ripresa di una fototessera, per intenderci. Eroico riuscire a non schiacciare "avanti veloce" sul telecomando del lettore dvd, sono sincera.
Promosso, nonostante lo zic di noia.


Voto:


domenica 10 gennaio 2010

A Serious Man


Anno: 2009
Regia: Joel & Ethan Coen
Interpreti: Michael Stuhlbarg

Diciamoci la verità: hanno un po' rotto.
Va bene che sto recensendo a caldo, reduce da una serata di pioggia battente nella quale, non sapendo dove andare a parare, mi sono rifugiato speranzoso in un cinema. Va bene che, queste righe, potrebbero essere solo figlie dell'irritazione data dal sentore di aver buttato via otto euro e quasi due ore della mia vita che sotto quella stessa pioggia battente avrei preferito, a questo punto, trascorrere...NUDO...va bene tutto.
"A Serious Man" è un film orrendo.
Questa volta non me la sento di difendere i fratelli Coen: non me la sento di sostenere l'antica tesi (che nel loro caso va sempre bene) secondo la quale, se un regista vuole disorientarti ed irritarti e ci riesce perfettamente, allora è stato bravo e merita un pollice up; non me la sento neanche di sforzarmi per mettere in moto quel meccanismo di riflessione che disorientamento ed irritazione dovrebbero generare, portando a "scoprire" il significato più profondo, vero o presunto, dell'opera; nemmeno me la sento di salvarmi in corner -parlando di significati- col buon vecchio "il senso è che la vita non ha senso, ed allora che tu sia buono o cattivo, credente o non credente, serio o faceto, quel che arriva arriva e va bene così". Proprio non me la sento.
Oppure occhei: diamo per scontato che tutto quanto detto sopra ci possa stare -sono ormai decenni che i Coen ribadiscono il concetto...va bene, l'abbiamo capito. Ma qualcosa di nuovo mai eh?
Di questo film non salvo la maestria registica che dei fratelli ho sempre apprezzato, semplicemente perché, oltre a rimanere schiava di quello stesso nulla che si è scelto di rappresentare, stavolta essa non emoziona mai e non è mai particolarmente caratterizzante né coinvolgente. Non salvo le gag così tipiche (vedi: "denti del non ebreo") ed i personaggi bizzarri, perché il mediocre che li circonda finisce per fagocitarli miseramente facendoli scomparire (eppure quello studente sud-coreano è semplicemente un mito!). Aborro il prologo di puro autocompiacimento, che ti fa arrovellare sul suo significato simbolico fino a quando, il giorno dopo, gironzolando per la rete scopri che non ha nessun collegamento né con la trama né tanto meno con "quello che si voleva dire".
Me ne infischio dei fiumi di parole adulanti che, riguardo a quest'opera, scorrono fra giornali e siti internet : io la boccio in toto e mai le darò una seconda possibilità, anzi, spero di scordarmi della sua esistenza entro subito. Perché sono arrabbiato.

Voto: