Cineovo su Facebook!

Cerca nel blog

martedì 29 dicembre 2009

Segreti di famiglia


Anno: 2009
Regia: Francis Ford Coppola
Interpreti: Vincent Gallo, Maribel Verdù, Alden Ehrenreich.

Il giovane Benjamin, di servizio su una nave da crociera, giunge occasionalmente a Buenos Aires e va a fare visita al fratello, il quale da anni, dopo aver tagliato i ponti con la sua famiglia d'origine, si è ivi ritirato. Tetro, questo il nomignolo dell'uomo, è uno scrittore che non ha mai pubblicato nulla, e che ora "sopravvive" di rendita con la compagna Miranda, grazie ad un assegno che periodicamente il ricco e potente padre gli fa recapitare. Scopo della visita di Benjamin diventa lentamente quello di farsi accettare da Tetro e di conoscere la vera storia della loro famiglia, che mai nessuno gli ha raccontato: nonostante la riluttanza del fratello, egli riuscirà comunque nel suo intento, scovando fra i suoi effetti personali un unico manoscritto che parla proprio del loro passato...
Francis Ford Coppola è un Maestro ed un Artista, tanto da farmi sentire completamente a disagio nel cercare di commentare uno stile registico, il suo, ormai troppo sapiente e maturo: una prima impressione, guardando il film, è quella di una sua completa consapevolezza di quello che sta facendo e dei risultati che sta ottenendo, fotogramma per fotogramma. Non posso fare altro che inchinarmi di fronte a tanta maestria e segnalare l'uso di un bianco e nero semplicemente splendido, che in alcuni contesti (sarà stata forse la suggestione data dal "dialogo casalingo fra fratelli"?!?), mi ha addirittura ricordato l'estetica sublime del Toro Scatenato di Scorsese, e nel quale gli attori, primo fra tutti un ottimo Vincent Gallo, accompagnato da un altrettanto sorprendente giovanissimo Alden Ehrenreich, si muovono perfettamente a loro agio.
Venendo all'opera in sé, opinione a caldo del sottoscritto ed anche di chi lo accompagnava alla proiezione, è che questa sembra essere, per Coppola, la grande occasione mancata di confezionare, fra vicissitudini produttive di ogni sorta, un altro grande capolavoro: almeno per i tre quarti del film è infatti palpabile la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa magari non di eccelso, ma quantomeno di completamente riuscito...sennonché quelle che per gran parte del film sono state affascinanti mezze verità (ma era quello il bello!), sapientemente abbozzate appena tra vaghi ricordi, stavolta colorati, e visioni danzanti, ora ci vengono improvvisamente spiattellate in maniera quasi brutale, secondo una scelta stilistica che, in più punti, rasenta il melodramma (vedi il finale). Spesso, inoltre, ci si ritrova disorientati di fronte a certi dettagli troppo smaccatamente autobiografici per essere compresi ed apprezzati (ciò che era comunque nelle intenzioni del regista); per non parlare di quel mezzo colpo di scena finale che, se non ha proprio il sapore della carrambata, molto ci si avvicina...come se il regista volesse a tutti i costi compiacere, finalmente, anche il suo pubblico, mettendo in bello stile la parola fine ad una storia scritta e messa in scena solo per il proprio personale compiacimento.

Voto:


mercoledì 23 dicembre 2009

Moon


Anno: 2009
Regia: Duncan Jones
Interpreti: Sam Rockwell

Satelliti che si muovono nel vuoto e nel silenzio cosmico, solitudine ed isolamento del protagonista, moduli spaziali sotto il completo controllo di un'intelligenza artificiale, addirittura qualche fotogramma che ritrae il movimento di Terra e Luna su un sottofondo di musica classica...c'è un qualcosa di vagamente (!!!) "Kubrikiano" in tutto ciò, e c'è da dire che Duncan Jones (esordiente regista figlio di David Bowie e co-sceneggiatore del film), con questo "MOON" ha davvero scherzato col fuoco, permettendosi di citare in più punti e prendendo spunto da uno dei massimi capolavori della storia del Cinema qual è 2001 Odissea nello Spazio...insomma, gli ingredienti per far gridare all'eresia e far passare ciò che il film aveva da dire di suo in secondo piano, c'erano proprio tutti. Eppure il regista, a mio giudizio, è riuscito a schivare il pericolo ed a cavarsela alla grande. Moon mi è piaciuto!
Mi è piaciuto stilisticamente (regia e fotografia), poiché non ho mai avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un pretenzioso tentativo di emulare e superare un Maestro, ma piuttosto all'umile scelta di sposare un modo di fare fantascienza considerato, per quel contesto registico, assolutamente non-migliorabile. Mi è piaciuto narrativamente poiché, seppur inizialmente "contestualizzata" in modo un po' sbrigativo ed anonimo -si parla di un futuro nel quale il mondo risolverà i propri problemi energetici andando ad "attingere" a fonti poste sul lato oscuro della Luna-, la storia si evolve lasciando al personaggio (o ai personaggi?!?) ed allo spettatore spazi proporzionati di tensione, disorientamento, stupore e, seppur nei limiti consentiti da un film di fantascienza, riflessione. Mi è piaciuto perché interpretato molto bene dall'unico protagonista, un Sam Rockwell alle prese con un personaggio che definire poliedrico risulterebbe riduttivo...
Insomma, Moon non è certamente un capolavoro, e presenta più di un difetto (uno su tutti il tentativo di inscenare una fantascienza meno spettacolare e più lenta ed introspettiva senza però trovare il coraggio di farlo fino in fondo, ma anche un finale a sua volta sbrigativo e quasi "leggero")...rimane comunque un'interessante ed ambiziosa opera d'esordio, assolutamente godibile per coloro che non intendono la fantascienza come necessario sinonimo di invasioni aliene, apocalissi o guerre interplanetarie.

Voto:

domenica 20 dicembre 2009

Al di là della vita


Anno: 2000
Regia: Martin Scorsese
Interpreti: Nicholas Cage, John Goodman, Patricia Arquette.

Tre giorni e tre notti nella vita di un paramedico newyorkese, le cui mani non sono più veloci come qualche mese prima: le vite delle persone soccorse invano che continuano a scivolargli da sotto le dita, scateneranno in lui rimorsi e domande, dando vita ad un processo di progressiva ed angosciante alienazione.
Per alcuni versi, considero questa pellicola l'ultimo gran bel film del regista italo-americano, prima della decisa e decisiva virata sul kolossal/biografico "di qualità" avvenuta sì dal 2000 in poi, ma le cui prime avvisaglie si erano già manifestate con Kundun.
In Al di là della vita, tra homeless e disadattati, psicopatici e freak, ritroviamo la New York allucinata e persa, cui tanto ci eravamo affezionati, del primo Scorsese. Per qualcuno ciò è stato fonte di una sgradevole sensazione di già visto -difficile avere ancora qualcosa da dire sul tema dopo Taxi Driver...eppure, nonostante le analogie con il capolavoro del '76 siano più d'una, alcune sostanziali differenze di fondo nel rapporto tra protagonista e mondo esterno, nonché un diverso modo di "inquadrare" alcune tematiche (a loro volta, queste, inevitabilmente evolutesi negli anni), fanno di Al di là della vita un film che valeva la pena realizzare e, di conseguenza, vedere ed apprezzare.
Una nota di merito va a tutto il cast ed in particolare a Nicholas Cage, attore che personalmente non amo, ma la cui espressione (se non espressività...), si adatta questa volta perfettamente al personaggio che si trova ad incarnare: paura che a volte diventa terrore, voglia di evadere e di ribellarsi che, contrapposta ad inettitudine e disincanto, dà vita ad un protagonista debole e spesso incoerente, sofferente di un dolore che sembra inebetire piuttosto che logorare. I co-protagonisti, a loro volta diretti magistralmente, non fanno altro che rafforzare quel retrogusto di non-senso accompagnato da pessimismo di fondo, quali che siano le visioni del mondo -spesso molto diverse fra di loro- dei personaggi che si trovano ad interpretare sempre egregiamente.
Infine non posso non segnalare la scelta, ovunque azzeccatissima, delle musiche di fondo: emblematica, a tal proposito, è già la primissima scena del film, un'allegra "passeggiata in ambulanza" per le vie più decadenti della Grande Mela, sulle note della splendida TB Sheets di Van Morrison.

Voto:

martedì 15 dicembre 2009

Shrooms - Trip senza ritorno


Anno: 2006
Regia: Paddy Breathnach
Interpreti: Lindsey Hawn, Max Kasch

Pur essendone sempre stato appassionato, devo ammettere che ultimamente il genere horror, inteso nel senso più classico del termine, forse non è più il luogo adatto dove andare a cercare emozioni forti: mostri, vampiri, psicopatici, "cattivi" in generale, sembra abbiano smesso di fare paura, almeno alla mia generazione ed a quelle successive, da ormai troppo tempo...come se non bastasse, in materia, ultimamente si assiste a trailer confezionati sempre meglio che pubblicizzano prodotti "messi insieme" sempre peggio, e devo ahimè ammettere che Shrooms è un tipico esempio di questa tendenza.
Sulla carta, ci sarebbero tutti gli ingredienti per un buon film dell'orrore, inteso nel senso più genuino del termine (quell'horror che, per i motivi sopra citati, magari non terrorizza più, ma che qualche brivido riesce comunque a metterlo): oltre ai classici cliché del gruppo di ragazzi un po' sballati ed irresponsabili, del luogo isolato e del Male che incombe, la tematica del fungo allucinogeno che, in teoria, dovrebbe disorientare personaggi e spettatore sovrapponendo visione e realtà, avrebbe potuto dare sicuramente quel tocco in più.
Il film, invece, utilizza tale ambiguità nel modo forse più sbagliato, pretendendo di virare sul thriller-misterioso e spiattellando lì un finale con "colpo di scena" (fra mille virgolette) che, per i cultori del genere, arriva ad essere quasi un'insulto nella sua assoluta prevedibilità (la mia teoria personale -per ora mai falsificata- per questo tipo di pellicole è: se entro metà film non hai ancora capito chi è il cattivo...beh, lascio immaginare a voi).
Per il resto, regia e recitazione in linea col genere (non che ci si potesse aspettare molto di più), e solo un paio di scenette "disturbanti", anche se la tensione non cresce mai, lasciando anzi molto presto spazio alla noia, a quella voglia di arrivare alla fine che nulla ha a che fare con la suspense!
Sconsigliato.

Voto:


giovedì 10 dicembre 2009

Big Fish - Le storie di una vita incredibile



Anno: 2003.
Regia: Tim Burton.
Interpreti: Ewan McGregor, Steve Buscemi, Danny DeVito, Albert Finney, Billy Crudup, Jessica Lange, Alison Lohman, Helena Bonham Carter, Marion Cotillard, Miley Cyrus.

E' un grande cilindro da cui escono mille racconti, popolati da giganti, pesci enormi incatturabili, streghe e città perfette.
E' una storia di ricerca, di un figlio per il padre mai capito, di un ragazzo per il proprio destino, di un uomo per la verità e le sue radici.
E' anche e soprattutto una grandiosa allegoria d'amore, per la vita in tutte le sue declinazioni.
La fine del film, un epilogo in cui tutti i personaggi si raccolgono a creare una scena meravigliosa, ci obbliga a chiederci, disorientati: "Realtà o fantasia?". La risposta, semplicemente, non esiste, nella misura in cui ci rendiamo conto di quanto è necessaria la contaminazione tra vero e non-vero, pur di non soccombere, letteralmente, agli insulti della noia. Vale a dire: non abbandonatevi alla decadenza di quanto è sterile e banale, combattetela creandovi un'ir-realtà autarchica.
Si dice che "Big Fish" sia il film della maturità di Burton: qui supera infatti la propria definizione di originale cantastorie, per dedicarsi alla dimensione dell'uomo e cercare una poetica. Meglio tardi che mai, mi vien da dire.


Voto:

martedì 1 dicembre 2009

Four rooms


Anno: 1995.
Regia: Allison Anders, Alexandre Rockwell, Robert Rodriguez, Quentin Tarantino.
Interpreti: Tim Roth, Sammi Davis, Valeria Golino, Lili Taylor, Madonna, Ione Skye, Jennifer Beals, Antonio Banderas, Salma Hayek, Quentin Tarantino, Marisa Tomei, David Proval, Bruce Willis, Tamlyn Tomita.

Quattro storielle sboccate, divertenti e non-sense, ambientate in altrettante stanze del grande albergo "Mon Signor", unite dal filo conduttore Ted (Tim Roth), il fattorino che casualmente si trova in esse incastonato. A ogni episodio spetta una scenografia, un regista e un cast propri: quindi quattro direttori, alias quattro amici che hanno scritto un film collettivo per gioco e per goliardia.
Prima micro sceneggiatura: "Strano intruglio", di Allison Anders, con Valeria Golino e Madonna, ambientato nella suite "Honey Moon". Una congrega di streghe moderne molto poco vestite e che imbastiscono sortilegi a suon di formule magiche del calibro di "In questa magica notte invoco l'antico potere, o creatura perfetta, ti offro il latte materno di una meravigliosa tetta" si ritrova dopo 40 anni nella stanza in cui la dea Diana è stata tramutata in pietra da una rivale gelosa durante la sua prima notte di nozze: il rito per la resurrezione è preparato, ma manca l'ultimo ingrediente (non ho il coraggio di scrivervi quale...), cui Ted, volente o nolente, dovrà provvedere.
Seconda stanza: la 404, teatro de "L'uomo sbagliato" di Alexandre Rockwell, nella quale il nostro fattorino si troverà invischiato in un perverso gioco psico-sessuale tra Angela (Jennifer Beals) e Sigfrido (David Provel). Episodio sinceramente un po' noioso, tutto giocato sul fattore sorpresa.
Terzo capitolo: "I cattivi", di Rodriguez, con un meraviglioso Banderas. Due genitori che sembrano presi in prestito da un film gangster (Banderas e Tamlyn Tomita) escono nella notte di Capodanno e, per meglio "darsi alla pazza gioia" lasciano i due pestiferi figlioletti soli in albergo, sotto la responsabilità di un molto poco paterno Ted. I ragazzini, nonostante le minacce del padre, riusciranno in una sola sera a giocare con le siringhe, bere alcool, fumare, scovare il cadavere semi-decomposto di una prostituta sotto al letto e incendiare la stanza. Fantastica la scena finale nella quale Banderas, rientrato dalla festa con la moglie ubriaca in braccio, apre la porta della camera in cui si trovano l'improvvisato baby-sitter e i figli, sorprendendoli fissi in un'immagine, dall'immancabile tinta splatter, che è la quintessenza dell'equivoco.
Ultima stanza ("L'uomo di Hollywood"): è l'attico di sua maestà Quentin Tarantino, nel quale compare come attore insieme, tra gli altri, a Bruce Willis. La storia è ripresa dal rifacimento anni '80 di un episodio di una serie tv del 1960, chiamata "Alfred Hitchcock presenta", dove Chester Rush (Tarantino) scommette la propria meravigliosa auto d'epoca (quella di John Travolta in "Pulp Fiction") contro il mignolo dell'amico che questo non sarebbe riuscito ad accendere il suo Zippo dieci volte di fila. Ted viene coinvolto nella scommessa, ed accetta 1.100 dollari incaricandosi di tagliare il dito in palio, qualora la scommessa lo avesse preteso. E' l'episodio più bello, frizzante, meglio scritto e diretto: è 100% Tarantino.
Nel suo complesso, "Four Rooms" è per forza di cose un'opera disomogenea e con più di qualche défaillance (una per tutte: la recitazione di Madonna ha meritato il "Razzie Awards" per la peggior attrice non protagonista), ma terribilmente divertente e con una colonna sonora su misura, che si imprime nella memoria.
Ottimo Tim Roth nella recitazione: è così nervoso ed iper-espressivo, al limite del caricaturale, da sembrare in tutto e per tutto un cartone animato, dall'adorabile accento inglese.

P.S.: Una chicca per chi la può apprezzare: Ted fuma sigarette "Red Apple" e Angela beve da un bicchierone da fast-food "Big Kahuna Burger".


Voto:


giovedì 26 novembre 2009

Pitch Black

Anno: 2000
Regia: David Twohy
Interpreti: Vin Diesel, Radha Mitchell

Un'astronave viene investita da una pioggia di asteroidi e precipita su un pianeta che, precedentemente abitato, pare ora essere completamente deserto, se non addirittura morto. Tra i superstiti c'è anche il pericoloso criminale Riddick (Vin Diesel), il quale però non sarà il pericolo principale per i sopravvissuti...
Ricordo ancora il pomeriggio noioso di qualche anno fa, quando interruppi uno zapping poco motivato fra i canali dell'allora "TELE+" sui titoli di testa di questa pellicola. Premetto che la presenza di Vin Diesel non è mai stata per me buon motivo per guardare un film, semmai per evitarlo, ma vedere il suo personaggio entrare così "educatamente" nella storia, senza delinearsi subito secondo quei cliché un po' buzzurri che tanto mi danno fastidio, mi indusse a dare a Pitch Black una possibilità...nel frattempo anche la trama si faceva interessante, mentre fotografia e regia (certo non artistiche, ma sicuramente azzeccate), a loro volta non mi dispiacevano, ma tutt'altro. Così mi ritrovai coinvolto in una storia letteralmente avvincente, quasi mai (quasi) eccessiva, ed intrisa della giusta dose di adrenalina e tensione: in definitiva una storia godibile e ben rappresentata. Tutto questo fa di Pitch Black un piccolo cult nel suo genere (quello di una fantascienza mai sopra le righe e che non si fa troppo prendere la mano da effetti speciali ed acrobazie mirabolanti), tanto che si è voluto dar vita anche ad un sequel, come prevedibile meno azzeccato: "The Chronicles of Riddick".
Io ricordo questo film con piacere e lo consiglio vivamente, soprattutto perché mi salvò da quel pomeriggio di noia e zapping poco motivato.

Voto:



martedì 24 novembre 2009

Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo


Anno: 2009
Regia: Terry Gilliam.
Interpreti: Heath Ledger, Johnny Depp, Colin Farrell, Jude Law, Christopher Plummer.

La sensazione che si ha guardando "Parnassus" assomiglia molto a quella che si ha provata da bambini spiando l'interno di un caleidoscopio: un caos di forme e colori in movimento a creare la magia, lo stupore.
Impossibili scommesse con il diavolo, una bella ma per nulla innocente fanciulla che rischia la morte, gelosie d'amore e tradimenti, disperazione, solitudine e rassegnazione: gli ingredienti per piacere al grande pubblico ci sono tutti, ma sono elaborati con sapienza e originalità, e incorniciati da un sistema di effetti speciali spettacolare, barocco e giocoso.
Il soggetto del film, a voler essere giusti, è vecchio quanto il mondo: la lotta del bene contro il male, qui messa in scena da Mr. Nick, un diavolo che è la caricatura di un ruffiano in un manifesto potenziale di Toulouse-Lautrec, e il dottor Parnassus, l'uomo una volta immortale ora guardiano decadente del regno dell'immaginazione. Luogo dello scontro è un mondo creato dalla mente in trance del protagonista, al quale si accede tramite uno specchio di carta e nel quale, come d'incanto, prendono corpo le fantasie di chi ha osato varcarne la soglia fatata: questi, alla fine del viaggio attraverso l'universo dei desideri, dovrà infine scegliere tra perdizione diabolica e redenzione fantastica, consegnando così la propria anima all'uno o all'altro dei paladini del duello.
Interessante è la caratterizzazione personologica di questi (mentre di ben poco rilievo sono le altre figure del film, a volte appena schematicamente abbozzate), che costruisce da una parte un diavolo annoiato, viveur, manipolatore ma molto poco "satanico", insomma accattivante, e dall'altra una controparte benigna ma patetica, affondata nella miseria, nel senso di colpa e soprattutto sostanzialmente perdente.
Questa, dunque, è una storia dove non si tifa per il cattivo, ma nella quale il buono mette a disagio, vestito di stracci, incollato alla bottiglia, che arranca per sopravvivere e, in barba al buonismo comune, continuamente sensibile ai giochi d'azzardo diabolici. Credo sia per questo motivo che, durante la visione, si crea nello spettatore una sensazione perenne, una sorta di fastidio sotto tono che non supera mai il livello di massima allerta, ma che, al termine delle due ore della pellicola, vi assicuro lascia tracce sull'umore.
Che dire della regia? Spettacolare nel generoso uso di coloratissimi effetti speciali, a mio parere un po' eccessivi in tutte le accezioni del termine, curata nel dettaglio ma non troppo equilibrata nel ritmo e decisamente poco originale: mi ha ricordato vagamente il Burton di "Big Fish" e molto "Il Signore degli anelli" di Peter Jackson.
Insomma, "Parnassus" non porterà niente di nuovo sotto il sole, ma resta un film per certi versi originale e che riesce a interessare: promosso, con riserva.


Voto:


lunedì 23 novembre 2009

Kill Bill



Anno: 2002/2003
Regia: Quentin Tarantino
Interpreti: Uma Thurman, David Carradine, Michael Madsen, Daryl Hannah, Lucy Liu

Ho appositamente cercato un'immagine che non faccia riferimento alla suddivisione in volumi di Kill Bill: quest'ultima è stata solo una scelta commerciale della casa produttrice Miramax di fronte al rifiuto di Tarantino di tagliare scena alcuna del film, la cui durata in pre-produzione superava addirittura le quattro ore. Kill Bill è quindi da considerarsi un'opera unitaria, e come tale la si deve giudicare.
Ricordo che, all'uscita dalla sala dopo la proiezione del primo volume, attuai volontariamente una "sospensione del giudizio" su quello che avevo appena visto, o meglio esperito: certo, riconobbi immediatamente la mano di un regista ormai maturo e sapiente, una fotografia splendida, una storia epica ed una sceneggiatura di valore, nonché musiche eccezionali e personaggi veramente tridimensionali...eppure non del tutto accolsi a braccia aperte alcune sfumature (in alcuni casi delle vere e proprie pennellate!), sia narrative che estetiche, che sul momento ritenni semplicemente eccessive: insomma, mi riservai il diritto di riguardare il primo spezzone (non voglio chiamarlo volume), in attesa del secondo boccone.
E come quel mio amico che lo vide al cinema forse più di 10 volte, ne divenni letteralmente dipendente: non solo lo vidi e lo rividi, ma mi ritrovai spesso, nei ritagli di tempo, a riguardarmi la storia in versione manga di O-ren Ishii, i duelli di Black Mamba contro la stessa O-ren (una Lucy Liu semplicemente meravigliosa), o contro Gogo Yubari e gli 88 Folli. Mi incantavo di fronte alla forgiatura ed alla consegna alla Sposa dell'ultima katana di Hattori Hanzo, mi concentravo in maniera sempre più maniacale sui dettagli...arrivai persino a portarmi in giro un pezzetto di Kill-Bill sparandomi la straordinaria colonna sonora in auto per una quantità innumerevole di volte...e con questo spirito approcciai la visione della seconda parte del film, sicuramente più lenta e "dialogata" (alcuni dialoghi, a posteriori, mi sono sembrati gli antesignani lontani di quelli di Inglourious Basterds), ma altrettanto sapientemente girata, altrettanto epica, e sempre visivamente e sonoramente speciale. E mentre vedere Black Mamba sconfiggere da sola 88 guerrieri mi era parso, solo un anno prima, francamente troppo, ora, vederla uscire da una bara inchiodata e sepolta sotto metri di terra, mi sembrava la cosa più normale del mondo: questa è la magia di Kill Bill.
Mentre mi sfilano in testa personaggi del calibro di Hattori Hanzo, Elle Driver, Pai-Mei, lo stesso Bill, le già citate O-ren Ishi e Black Mamba...beh, penso ad un ovetto d'oro più che sfiorato.


Voto:






giovedì 19 novembre 2009

Caro diario


Anno: 1993.
Regia: Nanni Moretti.
Interpreti: Nanni Moretti, Silvia Nono, Renato Carpentieri, Antonio Neiwiller, Giulio Base.

Chi mi conosce lo sa, io adoro Nanni Moretti, e questa pellicola ne è così intrisa che non posso che amarla.
Abbandonato lo pseudonimo feticcio dei film precedenti, "Michele Apicella", ora Moretti ci permette di avere finalmente a che fare con un se stesso allo stato puro, nel quale ansia, insicurezza e nevrosi, ma soprattutto ironia e riflessione, si emulsionano a quello zic di antipatia ed egocentrismo che ci rende categorici facendoci dire: o lo si ama o lo si odia. E così quest'opera, semplicemente.
Il film è diviso in tre capitoli, scritti bene o male secondo una stessa struttura, che raccontano, come in un diario in movimento letto dalla voce fuori campo, alcuni momenti della vita del protagonista. Nel primo lo vediamo gironzolare in Vespa per le vie di una Roma estiva, alla ricerca di panoramiche di palazzi, riflettendo su architettura, vita e cinema italiano, ormai "trash-intellettualoide". Il secondo è un'odissea giocosa attraverso le isole Eolie, alla ricerca della tranquillità necessaria alla preparazione di un film, accompagnato dall'amico Gerardo, ritiratosi a Lipari per dedicarsi allo studio in solitudine, ma che si scoprirà un teledipendente accanito. Il capitolo finale, toccante, racconta di un terzo pellegrinaggio di Moretti: quello attraverso decine di studi medici, di grandi professori come dire ciarlatani, fino alla diagnosi di linfoma, ironicamente resa possibile grazie all'intuizione di un dottore in medicina cinese durante una seduta di agopuntura. Da notare la sequenza della chemioterapia, originale.
"Caro diario" non è un capolavoro, e non ne ha la pretesa, eppure vola alto: una grande colonna sonora diventa essenziale nelle molte, e lunghe, scene narrative in cui lo spettatore è alle spalle del protagonista a seguirlo, strutturate da una regia attenta ed eloquente. Azzeccata la scelta del ritmo: momenti leggeri vengono alternati a campi lunghi o medi, accompagnati da pianoforte, nei quali al centro dell'inquadratura vi è solo il personaggio principale, alle prese con una solitudine mai tinta di malinconia. Sotto tono è, a volte, l'aspetto recitativo, soprattutto in Renato Carpentieri (Gerardo).
Meraviglioso Moretti (come sempre, oserei dire): difficile non scoppiare a ridere vedendolo torturare il critico di "Henry pioggia di sangue", colpevole di un giudizio positivo su questo, leggendogli le sue stesse pessime recensioni, o non commuoversi guardandolo, solo e disorientato, alle prese con il mostro della malattia.
Doverosa almeno una citazione dal film:

Nanni in Vespa si ferma a un semaforo e comincia a parlare a un tizio seduto su una cabriolet, che non sembra dargli molto retta:
- Sa cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste, cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c'è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un'isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo con una minoranza...e quindi...-
Scatta il verde e il tizio se ne va, lasciando Moretti a metà frase.

Geniale.


Voto:



mercoledì 18 novembre 2009

CINEGHI'!

Ladies & Gents,
assidui e numerosissimi visitatori del blog,
Cineovo-dipendenti ed intrepidi commentatori...
eccoci qua!

Cineovo è lieto di presentare
CINEGHI'
La sua nuova rubrica sul Cinema.

Certo, un ovetto fritto -altrimenti detto"ciarighì" in alcune province del Nord Italia, non potrà mai, neanche lontanamente, sperare di assurgere alle curve sinuose ed armoniche del guscio che lo conteneva da crudo, né vantare la stessa levigatissima ed austera veste, per non parlare della misteriosa origine...ma diciamoci la verità: oltre che contemplarlo, a noi l'ovetto piace anche consumarlo! E allora, quando i morsi della fame ci attanagliano e la situazione ed il tempo a disposizione sono quelli che sono, è proprio vero che, purché non si rompa tragicamente quand'ancora nel tegame, o peggio, non si pieghi vergognosamente su se stesso mentre trasferito nel piatto, un buon ciarighì fa sempre la sua sporca figura...

...nasce quindi "Cineghì", rubrica low-level con nome low-level dedicata ad un Cinema lower-level! Perché non sempre si ha la voglia di fare gli intellettualoidi spocchiosetti ed esteti, perché a volte meglio un uovo fritto che le ninne senza cena!


sabato 14 novembre 2009

Il Cacciatore


Anno: 1978
Regia: Michael Cimino.
Interpreti: Robert De Niro, Christopher Walken, John Savage, Meryl Streep.

La vita di un gruppo di amici, operai metallurgici in una modesta comunità russa impiantata negli Stati Uniti, prima, durante e dopo la guerra in Vietnam: la rappresentazione di come un orrore troppo grande abbia cambiato, direttamente o indirettamente, la vita di un Paese, gli Stati Uniti, e del suo Popolo. Sulla carta, una storia come centinaia di altre...troppo facile raccontare la tragedia, verrebbe da dire parlando appunto di Vietnam. Eppure questo film riesce a farlo forse come nessuno (personalmente non considero il già recensito Apocalypse Now un "classico" film sul Vietnam).
Opera d'un regista che non si è più saputo neanche lontanamente ripetere a questo livello, e che per questo è giustamente considerato una meteora, "Il Cacciatore" mette a dura prova tutte le mie convinzioni personali su cosa in definitiva sia da considerarsi cinematograficamente bello: qui non mi ritrovo infatti, come invece spesso mi succede, ad amare una pellicola per ragioni puramente stilistiche, audio-visive, artistiche...estetiche, in una parola. Da questo punto di vista, anzi, direi che il film si presenta particolarmente avaro e lamenta più di una bruttura, più di una sproporzione (penso ad esempio a quell'interminabile cerimonia matrimoniale che sembra "ingabbiare" la trama e tenerla prigioniera fin quasi allo scadere di tutta la prima ora di proiezione).
Per una volta, però, sono colpito in pieno semplicemente da quello che mi si sta raccontando, dal mero contenuto più che dalla forma, dalla storia in sè...da personaggi straordinariamente caratterizzati ed interpretati in modo a dir poco superbo, da relazioni d'amicizia e sentimento così incredibilmente realistiche, da una drammaticità resa in maniera a volte intima, a volte schietta, a volte brutale, ma mai prosaica né banale.
Resta nella storia del cinema la celeberrima scena della roulette russa, anche se personalmente sono stato emozionato, come raramente mi è successo, dai dialoghi intimi e pacati tra Mike (Robert De Niro) e Nick, interpretato da un Cristopher Walken sublime, in grado di dare vita ad un personaggio che incarna perfettamente quello spirito americano di fascia medio-bassa, ingenuo ed un po' sognatore, che verrà sopraffatto da tutto l'Orrore col quale sarà costretto a scontrarsi...una dialettica riassunta in maniera semplicemente illuminante da quell'"America, my home sweet home" intonata dai protagonisti nel finale, in una delle scene cinematografiche più amare e tristi cui io ricordi d'aver assistito.

Voto:



venerdì 13 novembre 2009

Miss Potter


Anno: 2006.
Regia: Chris Noonan.
Interpreti: Renée Zellweger, Ewan McGregor, Emily Watson, Barbara Flynn, Bill Paterson.

Ingrigita da un pomeriggio freddo e nuvoloso, raccolgo il consiglio di una graziosa signora e mi dedico a "Miss Potter" che, più che la mia ultima fatica cinematografica, è il mio ultimo giocattolo di celluloide.
La storia è quella di Beatrix Potter (Renée Zellweger), nota per essere l'autrice di "Peter Coniglio", una donna ispirata, fragile e determinata, eppure tremendamente sola, circondata dai protagonisti delle sue storie illustrate, dei simpatici animaletti che, agli occhi sognatori della loro autrice, prendono magicamente vita divincolandosi dalle costrizioni della carta.
La trama in sé è piuttosto prevedibile: la nostra dolce eroina, nonostante la strenua opposizione di una madre borghese irrigidita dalle regole dell'alta società, riesce a pubblicare i suoi libri per bambini e, come nelle migliori favole, trova l'amore in chi la spinge a realizzarsi, l'affascinante editore a cui Ewan McGregor ha dato vita. Questo è un amore destinato però a spezzarsi, a causa della prematura morte del promesso sposo pochi mesi prima delle nozze: dapprima sprofondata in un momento di cupa depressione, Beatrix riesce a ritrovarsi grazie ai personaggi di nuove storie e a una vita semplice circondata dalla natura.
"Miss Potter" è un film piacevole, leggero e divertente, ben recitato e immerso nei meravigliosi paesaggi della campagna inglese: guardatelo, se vi capita tra le mani.

Voto:



sabato 7 novembre 2009

Apocalypse Now


Anno: 1979
Regia: Francis Ford Coppola.
Interpreti: Martin Sheen, Robert Duvall, Marlon Brando, Dennis Hopper, Harrison Ford.

Ipnotico. Fissando lo schermo in quel finale di esplosioni silenziose e lontane, occhi sbarrati, ritrovo pian piano il battere del cuore e delle palpebre, la poltrona sotto il mio sedere, l'aria intorno a me...stimoli "esterni" che mi ricordano la realtà circostante: perché fino ad un attimo fa ho viaggiato, sono stato io il protagonista. Non sono certo di avere capito proprio tutto...o meglio, credo di aver sperimentato un modo nuovo di capire: un modo empatico, inconscio, fatto d'analogie, di brevi scosse subliminali, di piccole epifanie.
Sciamanico. Non per la trama affascinante, non per le musiche meravigliose, non per le immagini d'un rigoglioso quasi decadente, ma per come tutto ciò è fuso e sapientemente ridistribuito in un ritmo narrativo che, volente o nolente, mi trascina con sé lungo quel lento, lentissimo fiume maledetto, verso il Cuore di Tenebra appena abbozzato, eppur immanente, d'un Marlon Brando semplicemente epico.
Estremo. Come soltanto un bombardamento "a suon di Wagner" potrebbe essere: estremo, ed estremamente bello nel senso più squisitamente nietzschiano del termine.
Si sente l'odore del napalm, si percepisce "l'Orrore".
Capolavoro.

Voto:

mercoledì 4 novembre 2009

Viaggio a Tokio (Tokyo monogatari)

Anno: 1953.
Regia:Yasujiro Ozu.
Interpreti: So Yamamura, Chishu Ryu, Chiyeko Higashiyama, Kuniko Miyake, Setsuko Hara.

Lo scenario di Ozu è un Giappone post bellico, che ancora si nutre di tradizione, ma che si apre di giorno in giorno all'occidente, perdendo lentamente la sua forma, il suo rigore, i suoi significati intimi.
E' la malinconia del cambiamento il vero protagonista di quest'opera, evocata dal viaggio a Tokio degli anziani coniugi Hirayama, intrapreso da un lontano villaggio per ritrovare i figli, ormai adulti e realizzati sia dal punto di vista familiare che professionale. Ciò che li accoglierà nella grande città non sarà la tenera devozione e il rispetto loro dovuti, ma disattenzione, noncuranza, irritazione causata dallo sconvolgimento del quotidiano che la presenza di ospiti comporta. E' il profondo cambiamento del Giappone moderno che disorienta i due anziani genitori: abituati, e da questa isolati, a una vita rurale ancora secondo dettami antichissimi, vedono quei figli, cresciuti secondo la tradizione, ora fasciati da abiti occidentali, condizionati dal tempo, dall'avidità, dall'ambizione, farsi egoisti, superficiali e irrispettosi.
Amo di questo film il fatto che non porta a un facile retorica: il cambiamento sociale viene rappresentato come oggettivo ed irreversibile, e i protagonisti non lo criticano, semplicemente lo soffrono e accettano, in modo delicato, intimo.
"Viaggio a Tokio" ha una struttura equilibrata e semplice: i personaggi, con i loro sentimenti e simbolismi, sono ben interpretati dalle capacità degli attori (a questo proposito, è da ricordare la recitazione di Setsuko Hara, che ritroveremo, splendida, in "Tarda Primavera"), il tempo sfila lento e ordinato, grazie a inquadrature immediate e di facile lettura.
Per gli amanti del genere, questa pellicola è assolutamente da vedere, anche se la sua lunghezza (135 minuti in giapponese sottotitolato) e il suo mancato restauro ne rendono la visione oggettivamente impegnativa.


Voto:

martedì 3 novembre 2009

Ran


Anno: 1985.
Regia: Akira Kurosawa.
Interpreti: Tatsya Nakadai, Akira Terao, Takeshi Kato, Jinpachi Nezu, Hisashi Igawa.

Il teatro Shakespeariano è così potente dal punto di vista espressivo, che il maestro Kurosawa ne è sempre rimasto affascinato: dalla commistione di "King Lear" con le atmosfere di un Giappone medievale nasce Ran, una tragedia che, grazie alle sue ispirazioni, si veste di grandiosi simbolismi e di un linguaggio estetico affascinante ma disarmonico, resi un tutt'uno da una struttura narrativa massiccia.
Ho a volte rimproverato a Kurosawa, da integralista della cultura orientale quale sono, un'eccessiva benevolenza nei confronti dell'occidente, credo dettata dalla voglia, e dalla necessità, di fare della propria opera un prodotto masticabile anche per chi giapponese non è: se da un lato questo ha aiutato i nostri occhi, ineducati a concepire canoni e forme differenti dai massificati, a scoprire un nuovo eden, dall'altro ha generato uno stridore, un momento di discrepanza, proprio perché cercare di fondere due culture per mille versi antitetiche non è certamente cosa da poco.
In questo film, nella misura in cui si vede un Giappone vestire i panni, o meglio le forme e soprattutto le idee, dell'Inghilterra di Elisabetta I, l'imperfetto connubio tra ovest ed est è, a mio parere, particolarmente evidente, a creare nello spettatore quasi un senso di smarrimento, a trascinarlo fuori dall'estasi della visione.
Ran, con la sua disarmonia, è comunque un capolavoro: inquadrature che sembrano acquarelli su carta di riso danzano guidate da un ritmo lento, lentissimo, che permette di studiare i dettagli dei costumi, della scenografia, che aiuta a rendere tridimensionali i personaggi, e che ci dà modo di riflettere, per capire la profonda umanità di questa tragedia e la maestria con cui essa è stata resa.
Una scena indimenticabile è la carica alla rocca di Hidetora, Re Lear, che si compie in un silenzio riempito solo da una musica classica, colossale, evocativa di un destino di morte: si sente qui la presenza costante del regista, che si fa narratore e riesce a caricare di pathos ogni movimento.
Incalzato da un turbine di colpi e fumo, che rende lo spazio claustrofobico e violento, Hidetora risale il castello, in cerca di un riparo dalla tragedia che gli si sta compiendo alle spalle. La battaglia è ormai persa, dipinta nella scia di sangue e dolore lasciata dal re: lo ritroviamo nell'ultima stanza della roccaforte, immobile in un rovo di dardi e fiamme, il volto sfigurato dall'apocalisse. Svuotato dalla follia, rinuncia all'onore dell'harakiri e ripercorre i corridoi di quel palazzo di morte, per poi allontanarsi verso l'orizzonte scuro, assente, inebetito, immerso nella solitudine di chi si è perso di fronte all'orrore.


Voto:




lunedì 2 novembre 2009

Bastardi Senza Gloria

Anno: 2009
Regia: Quentin Tarantino.
Interpreti: Brad Pitt, Cristoph Waltz.

Il valore artistico di un'opera cinematografica non si giudica certo dalla "bellezza" della storia che racconta, o almeno non solo da quella: per questo, seppur perplesso da ciò che della trama del film conoscevo ancora prima di vederlo, mi sono seduto in poltrona più che mai ben disposto nei confronti di un regista che ha sempre saputo stupirmi e (quasi) mai annoiarmi.
Effettivamente, la narrazione non ruota soltanto (quasi per nulla!) attorno alle peripezie della crew cui il titolo si riferisce, ma è ben più articolata: protagonista di quel "Once upon a time" molto killbilliano è una giovane ebrea la cui famiglia è stata sterminata dai nazisti, e che si troverà, anni dopo, ad ospitare nella sala cinematografica di sua proprietà, a Parigi, tutte le più alte cariche del Partito Nazionalsocialista, Baffetto compreso, in occasione della prima di un film di propaganda. Il plot ruota attorno a fatti, antefatti ed accadimenti collaterali in qualche modo collegati all'evento, e l'epilogo coinciderà, per voler usare un eufemismo, con una rivisitazione a dir poco creativa -e metaforica- della Storia, quella con la S maiuscola.
Ecco, nonostante la premessa da cui questo articolo parte, e pur ritenendo Tarantino un maestro del "non è tanto quello che mi racconti, ma è come me lo racconti", mi sento di poter dire che, ad un'opera che comincia con un epico "C'era una volta", su musiche altrettanto affascinanti, si potrebbe chiedere sicuramente di più anche da un punto di vista meramente narrativo.
Venendo al "come me lo racconti", purtroppo non posso far altro che esprimere disappunto e delusione sotto parecchi punti di vista: mi è capitato di leggere qua e là lodi per la profonda caratterizzazione dei personaggi (?!), per l'ottima interpretazione degli attori, per presunti dialoghi brillanti e spumeggianti...personalmente ho riscontrato caratterizzazioni semplicemente piatte ed interpretazioni tutt'altro che memorabili (fatta eccezione per l'ottimo Col.Landa dell'ottimo Cristoph Waltz). La lentezza di alcune scene mi è parsa troppo forzata e comunque fine a se stessa, e spesso la noia ha finito per troncare sul nascere la tensione che il regista mi sembrava volesse, in alcuni punti, da quella stessa lentezza ottenere. Per quanto riguarda la sceneggiatura, siamo ahimé lontani anni luce dai dialoghi, quelli sì brillanti e spumeggianti, di "Le Iene" e "Pulp Fiction".
Di quello che avrebbe dovuto (ma forse mai potuto) essere un capolavoro, rimane quindi un mucchietto di gag e di personaggi bizzarri (quelli davvero piatti più che mai), che potrebbero entusiasmare solo un pubblico di adolescenti, o al massimo ispirare qualche nickname da "gamer"... il tutto condito dalla solita, ritrita abbondanza di citazioni, riferimenti ed occhiolini ai cinefili, in alcuni punti (vedi "noi Francesi i registi li rispettiamo") quasi disturbante, e comunque troppo poco per fare di un film un bel film.

Voto:







P.S.: ...lo rivedrò prima o poi, e in caso non escludo che il voto possa lievitare.

venerdì 30 ottobre 2009

Metropolis


Anno: 1927
Regia: Fritz Lang.
Interpreti: Alfred Abel, Brigitte Helm.

In una metropoli futuristica ed ipertecnologica, la società risulta drasticamente divisa in due classi: i ricchi, che trascorrono una vita comoda ed agiata in superficie, e gli operai che, nel sottosuolo, sono costretti a turni di lavoro massacranti, allo scopo di mantenere in moto le "macchine" che permettono alla città di sopravvivere. I due mondi, che conducono vite di fatto parallele, si rincontreranno allorché Feder, figlio del Signore della città, deciderà di scendere nel sottosuolo e mischiarsi fra gli operai, spinto dall'amore per Maria e dalla volontà di ricongiungersi con i suoi "fratelli".
Il regista fa di questa immagine di partenza la grande metafora di un mondo nel quale Mente e Braccio (le due classi sociali, ma anche la ragione e l'istinto di ogni singolo uomo), non possono continuare a sopravvivere ignorandosi a vicenda, ma dovranno prima o poi trovare quello che viene definito un "mediatore": tale mediatore, nel film, sarà proprio il protagonista Feder, mentre nella vita, ci viene detto, deve essere il cuore. Questa "morale", che in realtà lascia abbastanza spiazzati nel suo essere così semplice e semplicistica, ci viene spiattellata subito dopo i titoli di testa e ricordata ulteriormente prima dei crediti finali. Tutto quello che sta nel mezzo, come detto, è lo sviluppo visionario di una grandiosa metafora, per i tempi comunque abbastanza originale, che su tale enunciato si costruisce.
Pur apprezzando l'approfondimento di alcune tematiche al tempo relativamente giovani, almeno per il Cinema (come ad esempio il rapporto uomo-macchina), credo che il punto di forza di quest'opera sia soprattutto il forte impatto visivo, l'uso di tecniche innovative e l'estrema valorizzazione di alcuni capisaldi estetici tipici di quell'Espressionismo Tedesco di cui essa è l'ultimo prodotto.
Si tratta di un film muto, per cui non nego la mia personale difficoltà di giudicarlo dal punto di vista del ritmo e della capacità di suscitarmi sentimenti; ammetto comunque di aver goduto della tensione palpabile e dell'intensa drammaticità di alcune scene, nonostante qualche venatura di noia qua e là...

Voto:



lunedì 26 ottobre 2009

Vital


Anno: 2004
Regia: Shinya Tsukamoto
Interpreti: Tadanobu Asano, Kiki, Nami Tsukamoto, Ittoku Kishibe.

Un promettente studente di medicina è rimasto coinvolto in un grave incidente stradale, nel quale la sua ragazza ha perso la vita. Una volta risvegliatosi dal coma è affetto da totale amnesia, ma spinto dai genitori, cerca comunque di ritornare alla normale vita universitaria. Le sue immense doti non lo tradiscono ed egli rimane futuro medico provetto, nonostante sia messo a dura prova quando il destino beffardo gli fa trovare sul tavolo operatorio, da sezionare per il semestre di anatomia, proprio il cadavere della sua fidanzata.
Comincerà così, fra i ricordi che lentamente riaffiorano, un viaggio maniacale e visionario, ed insieme freddamente razionale, alla ricerca di corrispondenze fra amore spirituale ed amore fisico, o più letteralmente anatomico: un amore che lentamente si consumerà come un rito, fino alla sezione del suo capillare più piccolo, al disegno dettagliatissimo d'ogni suo tessuto.
Oltre all'originalità della metafora sulla quale è costruito, di questo film ho adorato il racconto dell'intima elaborazione di un dolore mai palesato agli altri e non per questo represso, dolore che non si lascia andare alla disperazione, ma che nemmeno rifiuta i suoi lati più oscuri: il protagonista cede più volte ai ricordi ed alle visioni, fino a ritagliarsi, nella sua testa, un piccolo pezzettino di mondo solo per sé e per il suo Amore perduto, un mondo ch'egli è riluttante a condividere anche con la sua nuova compagna, pur semplicemente meravigliosa nel senso più esteriore del termine.
Una lunga poesia che il regista racconta, quasi accompagna, con tecniche più che mai discrete e silenti, tese a non intaccarla, a non invaderne lo scorrere armonioso.
Da vedere.

Voto:



domenica 25 ottobre 2009

Antichrist

Anno: 2009
Regia: Lars Von Trier
Interpreti: Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg.

Al discusso e discutibile genio danese, che ammetto di conoscere pochissimo, ho deciso di avvicinarmi partendo dalla sua ultima opera, sicuramente altrettanto discutibile e discussa. Devo confessare d'esserne stato attirato soprattutto per i feroci attacchi sferrati al regista dopo la presentazione a Cannes, per le accuse di voler stupire e scandalizzare a tutti i costi, fino alle ipotesi di presunte malattie e disagi mentali d'ogni genere - con "Antichrist" Von Trier, per sua stessa ammissione, ha voluto uscire allo scoperto dopo un lungo periodo di depressione, portando sullo schermo tutte le sue ossessioni ed i suoi turbamenti più profondi.
E' difficile approcciare una pellicola del genere, e soprattutto cercare di giudicarla, prescindendo da quanto detto sopra...volendoci provare a caldo, appena visti scorrere i titoli di coda, posso dire soprattutto d'essermi trovato di fronte ad un'opera certamente coraggiosa ed estrema, intrisa di forti valenze simboliche riguardanti il rapporto fra Uomo e Donna (o forse Regista-Donna?), dove non sempre è chiaro il confine fra visione e realtà, fra irrazionale e razionale, fra malattia e lucidità. Dualismi talmente forti da dare quindi origine anche alle inevitabili dicotomie critiche cui ho fatto cenno: enorme bufala o opera d'arte? Ciò che è certo è che si tratta di un film unico, la cui catalogazione accademica nel genere horror risulta quantomeno riduttiva.
Non si può ad ogni modo non spendere una parola per l'interpretazione, a mio giudizio superba, dei due attori protagonisti: una "Lei" stravolta e portata all'esaurimento dai sensi di colpa e da ulteriori, ennesimi dualismi interiori, un "Lui" che vede lentamente crollare le sue certezze razionali di psicoterapeuta, finendo per contemplare stralunato il vuoto.
Poche righe infine per ricordare quel Prologo meraviglioso, esteticamente sublime per scelte visive e sonore, tecnicamente perfetto, ed altrettanto sapientemente bilanciato da un Epilogo che lo richiama, sulle medesime note di Handel, con immagini volutamente contrastanti, di perdizione e disarmonia, come se il genio stesse beffardamente sussurando..."guarda che so perfettamente quello che faccio".
Voglio osare.

Voto:


mercoledì 21 ottobre 2009

Ultimo tango a Parigi

Anno: 1972.
Regia: Bernardo Bertolucci.
Interpreti: Marlon Brando; Maria Schneider; Jean-Pierre Léaud.

Su questo film credo che potrei scrivere un libro, tante sono le scene esteticamente perfette contenute, tanto sorprendente e spontanea è qui la recitazione del DivinoMarlon, tante scelte registiche ho amato con un godimento sottile, quasi fisico.
Il protagonista ha le fattezze di un affascinante uomo decadente, ma è in realtà un animale ferito che carambola per le vie di Parigi, sopravvivendo su quella linea che separa la disperazione dal nulla, in una maniera a dir poco violenta e insieme meravigliosa.
Ciò che Bertolucci riesce a rendere fisicamente percepibile ai nostri occhi, nel dipanarsi del personaggio, è un delirio di Solitudine, Dolore, fisicità, lussuria, Rabbia e Potere: in un'espressione, tutto ciò che può mantenere al confine della vita l'animale morente. Un gioco di inquadrature, colori, ritmo e luci costruisce un universo sensoriale dipinto di una bellezza mai superficiale, una poesia in movimento che riesce a evocare distintamente il Dolore dell'Uomo, fatto dal gusto metallico del sangue, di un silenzio che si scatena in isteria, di strade cupe che risuonano tristezze e miseria.
Una scena per tutte: quella finale, di morte, dove regia e recitazione si uniscono a creare un momento perfetto.
L'animale ferito ha scelto la vita, e la cerca nell'unico modo in cui la sa cercare: dandole la caccia. Una caccia che si esaurisce in un appartamento pieno di ricordi, nel quale Lei, l'anima innocente che con la sua leggerezza ha lenito ferite troppo vecchie, estrae una pistola.
Uno sparo fuso a un nome di donna: lui, incredulo, barcolla sul balcone e, agonizzante, guarda l'infinito dei tetti di Parigi, impaurito, liberato, consapevole di una morte che in realtà è una condanna alla negazione della Vita, alla disperata solitudine, per lui così come per l'Uomo.
L'esatto momento in cui gli occhi di Marlon Brando diventano atoni, un capolavoro di recitazione, è per me la fine del film, ma il regista ci concede una sorta di piccolo epilogo, qualche secondo di girato, che forse è necessario, per ricomporci dalla stretta emotiva di una delle scene di morte più belle mai scritte nella storia del cinema.


Voto: