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lunedì 18 gennaio 2010

Il grande silenzio


Anno: 2005.
Regia: Philip Groning.

"Il monastero della grande Chartreuse vicino Grenoble è considerato uno dei più austeri del mondo. Nel 1984 chiesi di fare delle riprese, mi risposero: forse tra 10, 13 anni.
16 anni dopo mi chiamarono, erano pronti."

E' quello che dice il regista alla fine del film. Lascia di sasso.
Perché c'è voluto così tanto per poter solo concepire una telecamera all'interno del monastero è intuibile dal girato: ora il monaco contabile usa il pc, drappelli di turisti si addossano incuriositi al perimetro dell'abbazia, i frati mangiano cibo ottenuto grazie alla grande distribuzione commerciale. In un'espressione, perché l'"oggi" è riuscito a far breccia nelle mura di Chartreuse, permettendo al nostro mondo di penetrarvi, anche se in maniera ridottissima, snaturandone ben poco la struttura.
Definire "Il grande silenzio" un film non credo sia esatto, "documentario" è una parola più azzeccata: in due ore e quaranta sfilano davanti alla telecamera le giornate dei frati, scandite dai ritmi delle campane e della preghiera, e con loro l'estrema bellezza di tutto ciò che a queste si relaziona. Non c'è un narratore, non c'è un "voler dire qualcosa a qualcuno", non ci sono sentimenti o protagonisti, non c'è trama: semplicemente si vede ciò che è nella realtà, si spia dalla breccia nelle mura.
Lavoro, funzioni religiose, paesaggi incantevoli, architetture poverissime o raffinate, studio e svago, adiuvati dal gusto sopraffino del regista, creano un insieme di sequenze da un lato interessanti dal punto di vista sociologico, dall'altro esteticamente sublimi. Grande attenzione è posta al particolare, anche dal punto di vista quantitativo: romantica l'inquadratura del pulviscolo atmosferico in sospensione, così come lo sono le innumerevoli immagini dei giochi di forme creati dalla neve, a tono i "primi piani" di frutta e verdura (che a me hanno ricordato le sequenze di Almodovar in cui fa cucinare alle proprie eroine il gazpacho), macchie di colore che spezzano la monotonia di marrone e grigio negli ambienti.
Quello che si respira guardando questa pellicola, come già accennato, è una bellezza naturale e soprattutto, in contrapposizione alla clausura dei monaci, un forte senso di tranquillità e libertà. La solitudine dona a questi uomini, all'interno di un'abbazia che è un sistema chiuso, un ruolo e un significato di sè e il regista, con gusto e lentezza, riesce benissimo a farci vivere questo microcosmo infarcito di silenzio, riuscendo anche nell'evitare l'insidia del luogo comune e della retorica fine a se stessa.
Quasi tre ore di film in cui i personaggi si muovono pressoché in silenzio, senza alcuna colonna sonora e con un tale abbondare di dettagli minuti, alcuni dei quali assolutamente trascurabili, rischia però di appesantire la visione, che in più di un punto annoia un po'. Ricordo di aver particolarmente sofferto quell'incredibile numero di riprese di mezze figure di monaci immobili, inespressivi, in silenzio e solitudine, su fondo bianco: per ogni soggetto dieci secondi di girato, come la ripresa di una fototessera, per intenderci. Eroico riuscire a non schiacciare "avanti veloce" sul telecomando del lettore dvd, sono sincera.
Promosso, nonostante lo zic di noia.


Voto:


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