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martedì 3 novembre 2009

Ran


Anno: 1985.
Regia: Akira Kurosawa.
Interpreti: Tatsya Nakadai, Akira Terao, Takeshi Kato, Jinpachi Nezu, Hisashi Igawa.

Il teatro Shakespeariano è così potente dal punto di vista espressivo, che il maestro Kurosawa ne è sempre rimasto affascinato: dalla commistione di "King Lear" con le atmosfere di un Giappone medievale nasce Ran, una tragedia che, grazie alle sue ispirazioni, si veste di grandiosi simbolismi e di un linguaggio estetico affascinante ma disarmonico, resi un tutt'uno da una struttura narrativa massiccia.
Ho a volte rimproverato a Kurosawa, da integralista della cultura orientale quale sono, un'eccessiva benevolenza nei confronti dell'occidente, credo dettata dalla voglia, e dalla necessità, di fare della propria opera un prodotto masticabile anche per chi giapponese non è: se da un lato questo ha aiutato i nostri occhi, ineducati a concepire canoni e forme differenti dai massificati, a scoprire un nuovo eden, dall'altro ha generato uno stridore, un momento di discrepanza, proprio perché cercare di fondere due culture per mille versi antitetiche non è certamente cosa da poco.
In questo film, nella misura in cui si vede un Giappone vestire i panni, o meglio le forme e soprattutto le idee, dell'Inghilterra di Elisabetta I, l'imperfetto connubio tra ovest ed est è, a mio parere, particolarmente evidente, a creare nello spettatore quasi un senso di smarrimento, a trascinarlo fuori dall'estasi della visione.
Ran, con la sua disarmonia, è comunque un capolavoro: inquadrature che sembrano acquarelli su carta di riso danzano guidate da un ritmo lento, lentissimo, che permette di studiare i dettagli dei costumi, della scenografia, che aiuta a rendere tridimensionali i personaggi, e che ci dà modo di riflettere, per capire la profonda umanità di questa tragedia e la maestria con cui essa è stata resa.
Una scena indimenticabile è la carica alla rocca di Hidetora, Re Lear, che si compie in un silenzio riempito solo da una musica classica, colossale, evocativa di un destino di morte: si sente qui la presenza costante del regista, che si fa narratore e riesce a caricare di pathos ogni movimento.
Incalzato da un turbine di colpi e fumo, che rende lo spazio claustrofobico e violento, Hidetora risale il castello, in cerca di un riparo dalla tragedia che gli si sta compiendo alle spalle. La battaglia è ormai persa, dipinta nella scia di sangue e dolore lasciata dal re: lo ritroviamo nell'ultima stanza della roccaforte, immobile in un rovo di dardi e fiamme, il volto sfigurato dall'apocalisse. Svuotato dalla follia, rinuncia all'onore dell'harakiri e ripercorre i corridoi di quel palazzo di morte, per poi allontanarsi verso l'orizzonte scuro, assente, inebetito, immerso nella solitudine di chi si è perso di fronte all'orrore.


Voto:




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